D’Annunzio e Scarpetta, vittime della stessa «angustia mentale»

SECONDA PARTE

Non sta a me raccontare la storia di Eduardo Scarpetta, né la sua ascesa teatrale, né il suo successo e nemmeno la sua geniale intuizione, ma, a tal proposito, basta ricordare la scena che ha meglio riassunto, con garbo e sensibilità, la rilevanza artistica del creatore di Felice Sciosciammocca. Sciosciammocca, nella tradizione del teatro comico napoletano, rappresenta l’erede di Pulcinella. Pulcinella, nel periodo antecedente a Scarpetta, si chiamava, in realtà, Antonio Petito. Antonio Petito, per uno di quei casi imprevedibili che, quando accade, subito è pronto a diventar leggenda, scelse di morire dietro le quinte del palcoscenico del San Carlino durante una rappresentazione. Ora si dovrebbe spiegare cos’era, in quel periodo, il Teatro San Carlino a Napoli, ma sarebbe troppo lungo: basterà dire che fu per oltre cinquant’anni la casa di Pulcinella, dove Eduardo Scarpetta apprese l’arte della commedia. La sera del 24 marzo 1876 si recitava «La dama bianca», farsa di Giacomo Marulli. Il giovane Scarpetta comprese sin da subito che il suo maestro non era al meglio delle forze, e quando, in scena, sentì le battute prive di verve, intuì che la serata non sarebbe stata come le solite. Altre volte accadde che in quinta l’umore di Pulcinella non fosse frizzante, ma poi, di fronte al pubblico, l’adrenalina saliva e il coinvolgimento della platea era assicurato. Quella sera non fu così: Petito riuscì con un filo di voce a terminare il terzo atto. Il sipario si chiuse e a fatica l’attore raggiunse una sedia in quinta sulla quale si accasciò. Sì sfilò la maschera nera e un attimo dopo crollò a terra. Scrive Scarpetta: «E mentre tutti i comici del San Carlino accorrevano intorno a lui, sua sorella Adelaide proruppe in un grido disperato: “È muorto Totonno”». Al di là del sipario gli spettatori, in attesa del quarto atto, concitatamente compresero la tragica notizia. Il corpo senza vita di Antonio Petito, con la maschera poggiata sul viso, fu adagiato su un materasso e portato al centro della ribalta. Il sipario si riaprì, per l’ultimo saluto al più grande dei Pulcinella.

Mario Martone, regista del film

Martone rende un rispettoso e doveroso omaggio alla maschera di Petito riproponendo la scena dell’attore morto adagiato in ribalta. È forse l’attimo più toccante e significativo del film, durante il quale, in un momento in cui si tirano le somme di una lunga carriera, la coscienza di Scarpetta gli suggerisce che potrebbe essere stato lui ad aver ucciso Pulcinella, e quindi di aver affossato il teatro popolare napoletano. Dopo la morte del maestro, infatti, la più famosa maschera partenopea, cedette lentamente il posto a un altro personaggio, un tipo assai curioso, un fessacchiotto allampanato, un po’ rincitrullito, insomma uno che di Pulcinella poteva essere il fratello o il cugino, ma in abiti borghesi. Era Felice Sciosciammocca, l’erede di Pulcinella, il personaggio inventato da Eduardo Scarpetta.

Tuttavia questa scena, senza alcun sostegno storico, senza alcun accenno alla nascita di don Feliciello, senza alcuna spiegazione che chiarifichi il motivo per cui Scarpetta sentì la necessità di togliere a Pulcinella il suo abito bianco e soprattutto la maschera, diventa comprensibile soltanto a coloro che conoscono la storia dell’attore e commediografo che, famoso che sia, non è certo attore di cui si parli quotidianamente. E allora chi ignora il lato artistico di Eduardo Scarpetta cosa dirà dopo aver visto il film di Martone? Chi è stato incuriosito dal richiamo pubblicitario della produzione cinematografica, cosa ha appreso di costui? Che Scarpetta è un fetentone, molto più fetentone di Pulcinella; che è uno che andava a letto con la moglie, con la sorella della moglie, con la cameriera, con la governante, con la vicina di casa e con la comparsa appena scritturata; insomma, uno sciampagnone senza né arte né parte che usava il palcoscenico per dar sfogo alle sue primitive polluzioni. Eh no, caro Martone, non è così! Scarpetta non è questo, e tu lo sai bene.

Se il film voleva essere un omaggio a cotanto attore, avrebbe dovuto contenere qualcosa che facesse vedere come e cosa avesse prodotto il suo genio. Non basta riproporre la scena, vista e rivista in tv, con Totò che in piedi sul tavolo, s’infila gli spaghetti in tasca. Quel pezzo, oggi, per l’opinione pubblica, appartiene più a Totò che a Scarpetta, più all’interprete che all’ideatore, il quale non merita di essere confuso nemmeno con il principe De Curtis. Trascrivo qui di seguito Salvatore Di Giacomo, e non a caso (ché nel film anche la sua figura è stata ben travisata!): «… ecco infine Scarpetta che adatta alla modernità la sua linea e le sue trovate ridicole, non mirando ad altro se non che a risollevare lo spirito del suo pubblico e a lasciar dimenticare a quest’ultimo tutte le noie della vita…». Salvatore Di Giacomo, poeta stimato da Croce, suo amico e collaboratore sodale di storia patria, avrebbe mai potuto sentirsi in tal competizione con Scarpetta così come ci è stato presentato nel film tanto da malignare alle sue spalle con Libero Bovio, Ferdinando Russo e con lo stesso Ernesto Murolo (altro figlio naturale dell’attore)? Se così fosse, Croce, o non si sarebbe mai esposto in prima persona; o avrebbe osato un’ardita tirata d’orecchie ai suoi discepoli.

Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio

Don Benedetto non era personalità da far passare sotto silenzio una simile e sciocca presa di posizione nei confronti di un artista degno della sua attenzione. Leggete qui come redarguisce pubblicamente proprio il Di Giacomo in occasione di una pubblicazione nata senza il suo consenso: «Perché mai quel finissimo artista ch’è Salvatore Di Giacomo si è dato a comporre libri di storia, irti di citazioni e di documenti? E come gli è ora saltato in mente di scegliere una materia [la prostituzione in Napoli, ndr], della quale può sembrare imbarazzante, in pubblico, perfino ripetere il nome?». In breve, Croce rimprovera Di Giacomo per aver pubblicato uno studio erudito su una materia fin troppo realistica, eseguito con il suo solito «temperamento lirico e di sognatore», che lo ha spinto ad appagare la sua fantasia più che la curiosità storica. Insomma, lo ha ben servito per quanto riguarda le cose concrete della vita!

Ora, è vero che Di Giacomo fu invitato da alcuni poeti e scrittori (Bracco e Scalinger ne furono i promotori) a promuovere in tribunale l’arte di D’Annunzio contro quella di Scarpetta per sostenere il plagio della «Figlia di Iorio» del quale il napoletano era accusato, ma è pur vero che trattò l’argomento con molta delicatezza, proprio con quel suo «temperamento lirico e di sognatore», tanto che a don Benedetto bastò davvero poco per scioglierle come polvere d’Idrolitina nell’acqua. Nella sequenza che vede Scarpetta in visita al Croce, lì, sarebbe stato opportuno che venisse fuori l’attestata grandezza artistica di Scarpetta; un particolare che, purtroppo, viene offuscato da una inspiegabile commozione del protagonista troppo impegnato a esibire imbarazzi e timidezze al cospetto dello storico. Scarpetta non avrebbe mai pianto di fronte a Croce che già conosceva: qualche anno prima, nel 1899, per esempio, gli chiese personalmente «due parole di prefazione» al volume delle sue memorie. E Croce non si tirò indietro. Il filosofo stimava il teatro di Scarpetta, tanto da scrivere: «L’importanza che Napoli non ha avuta nel teatro letterario, l’ha avuta invece grandissima nella commedia popolare e dialettale…»; considerando per «teatro letterario» quello del Di Giacomo e soprattutto quello di Roberto Bracco.

E naturalmente stimava la poesia di D’Annunzio. Qualche anno prima prese le difese del Vate, proprio come poi prese quelle di Scarpetta: a seconda delle accuse rivolte all’uno o all’altro. Croce sosteneva che molti artisti di genio erano facilmente vittime di antipatie da parte di chi era afflitto da «angustia mentale, … una ripugnanza verso la vita e verso la pienezza e varietà della vita». Costoro – spiega Croce – da sempre, provano un fastidioso ribrezzo per tutto ciò che intorno a loro cambia senza la loro partecipazione. Non la chiama propriamente invidia, ma si ferma a constatare che si tratta comunque di una «forma di malattia» di cui prima D’Annunzio e poi Scarpetta furono nobili bersagli prescelti.

fine (2/2)

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Qui rido io, un film di Mario Martone del 2021; con Toni Servillo (Eduardo Scarpetta), Maria Nazionale (Rosa De Filippo), Cristiana Dell’Anna (Luisa De Filippo), Eduardo Scarpetta (Vincenzo Scarpetta), Roberto De Francesco (Salvatore Di Giacomo), Lino Musella (Benedetto Croce), Paolo Pierobon (Gabriele D’Annunzio), Giovanni Mauriello (Mirone), Chiara Baffi (Nennella De Filippo), Roberto Caccioppoli (Domenico “Mimì” Scarpetta), Gigio Morra (presidente del tribunale), Gianfelice Imparato (Gennaro Pantalena), Iaia Forte (Rosa Gagliardi), Greta Esposito (Maria Scarpetta), Alessandro Manna (Eduardo De Filippo), Marzia Onorato (Titina De Filippo), Salvatore Battista (Peppino De Filippo), Paolo Aguzzi (Ernesto Murolo), Tommaso Bianco (zio Pasqualino), Benedetto Casillo (Luca), Giovanni Ludeno (Ferdinando Russo), Giuseppe Brunetti (Libero Bovio), Nello Mascia (giudice istruttore). Soggetto e sceneggiatura, Mario Martone, Ippolita Di Majo. Costumi, Ursula Patzak. Regia di Mario Martone. RaiUno, il 21 maggio 2023

Foto in evidenza: Toni Servillo nel ruolo di Eduardo Scarpetta © ph Mario Spada

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