Glory Wall” il muro bianco della censura interroga il teatro e il pubblico del Vascello

Fin dove si può spingere la censura? E’ componente sostanziale se non necessaria delle dinamiche scatenate dall’arte? E perché le maglie dell’autorità si stringono di più sotto i riflettori del teatro rispetto a quanto succede giù dal palcoscenico? Queste e altre domande ha rivolto e non risolto Glory Wall, spettacolo proposto da Teatro Vascello dal 10 al 15 maggio. Leonardo Manzan e Rocco Placidi hanno scritto e confezionato un progetto, produzione La Fabbrica dell’Attore e Elledieffe, che nel 2020 trionfò a La Biennale Teatro di Venezia. Un’edizione incentrata, appunto, sul tema della censura. Che si è palesata sin dal primo secondo, al pubblico romano, quando si sono accese le luci su un muro bianco lungo 12 metri – scenografia di Giuseppe Stellato –  a separare fisicamente la platea dagli interpreti. Manzan, Placidi, e con loro Paola Giannini, Giulia Mancini e Alessandro Bay Rossi, si sono palesati con la voce e gesticolando attraverso buchi aperti sul muro vista platea. Piccoli oblò, illuminati a contrasto dalle abili luci di Paride Donatelli, ad accogliere, gesticolanti, mani e braccia in guanti di lattice. Ma anche parti basse lasciate libere. Di mostrarsi e di esprimere il proprio pensiero.

Un canovaccio tra l’assurdo, il grottesco, la provocazione, i venti di rivoluzione. Attraversando la storia, citando nomi e cognomi di chi ha pagato con l’emarginazione, lo stigma e spesso anche con la vita l’espressione di idee e messaggi diversi e distanti dalle linee guida dominanti. La drammaturgia di Manzan accende le menti, scuote il pubblico che senza preavviso viene anche coinvolto e diventa parte integrante della narrazione. Anche complice di dialoghi, peraltro assai divertenti, dove il politicamente corretto va a farsi benedire. Dove si dissacrano storie e personaggi che la cultura dominante ha elevato a punti fermi. Fornicazione, perversioni, violenze, simbolismo senza filtri, linguaggio scurrile. Dall’alto cadono oggetti, si brinda, si accendono sigarette e stelle filanti. Genialità e colpi ad effetto a ripetizione. Chi osserva, dall’altra parte, gradisco con risate e applausi ripetuti. Gli intramezzi musicali, prodotti da Filippo Lilli, si incastrano alla perfezione.

Sì, si potrebbe anche obiettare: uno sviluppo narrativo forse discutibile. Ma discutibile rispetto a quale punto di vista? Chi e con quale criterio decreta ciò che può essere e ciò che non può essere espresso? Il muro della gloria e la censura, suggeriscono Manzan e Placidi, non esisterebbero se non ci fosse l’arte. Ma anche viceversa, cioè l’arte ha bisogno di limiti contro cui scontrarsi e dunque reagire. Come in un processo chimico. Paradossale – si evince dai pannelli illuminati alternativamente da colori e parole – come la censura intervenga in modo perentorio nel momento in cui appunto ci si muove entro il recinto delle manifestazioni che lo stesso sistema categorizza come artistiche. Fuori, nei palazzi e per le strade, di giorno e di notte, le maglie si allargano. Quasi svaniscono. La censura si fa trasparente, perché gli umani esseri vivono, e poco riflettono.

A teatro, al cinema, negli spazi d’arte, invece, chi osserva e ascolta lavora con l’immaginazione. Si stacca dalla realtà e forse questo che genera “timore” nell’establishment, che dunque per risposta erige dei muri bianchi. Con cui gli artisti devono accettare di convivere ma non per questo – è l’invito che viene rivolto alla categoria dal palco del Vascello – rinunciando a ritagliarsi degli oblò con cui lasciare libero sfogo a temi e riflessioni. Una funzione che il teatro deve tornare a riprendere, evitando di liquefarsi in espressione di maniera e autoreferenziale. Megafono noioso e di nicchia. Al suo posto, invece, Manzan e soci invocano un teatro che con le armi della parola e dei sensi metta in discussione, mescoli, crei interrogativi. Sfidando la censura, coabitando con essa.

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