Gianfranco Jannuzzo ne Il Padre della Sposa

Umorismo e sentimenti nella pièce tratta dal romanzo di Streeter e diretta da Gianluca Guidi

Dal 10 al 29 ottobre alla Sala Umberto di Roma, reduce dal bel successo ottenuto al teatro Manzoni di Milano nella scorsa stagione, va in scena la commedia Il Padre della Sposa, testo scritto da Carolyn Francke e tratto dal romanzo di Edward Streeter, qui in un adattamento italiano personalizzato da Gustavo Verde. Interpreti Gianfranco Jannuzzo e Barbara De Rossi nel ruolo di Giovanni e Michelle, i genitori della ragazza; Martina Difonte e Lucandrea Martinelli nel ruolo di Alice e Ludo, i due fidanzatini; Roberto Iannone e Marcella Lattuca nel ruolo di Rinaldo e Costanza, i consuoceri; e Gaetano Aronica nel ruolo di Boris, un eccentrico organizzatore di matrimoni. La regia e le musiche sono di Gianluca Guidi, la produzione di Francesco Bellomo per Virginy l’Isola Trovata.

Martina Difonte e Gianfranco Jannuzzo

L’esordio romano ha visto un teatro affollatissimo e la presenza di molti nomi dello spettacolo e del giornalismo, tra i quali Giancarlo Magalli, Emanuele Salce, Patrizia Pellegrino, Anna Malvica, Jimmy Falqui, Gaetano Savatteri, Giancarlo Governi e Paolo Paganini.

Un classico della commedia americana. Bellomo, con acume e buongusto, ha scelto di produrla con la sua etichetta, che, già nel nome, rivela il ricordo sempre presente di sua sorella Virginia, eccezionale studiosa di Pirandello, attrice e produttrice, purtroppo recentemente scomparsa, come lui cresciuta dal grandissimo Nino Bellomo nell’amore per il teatro.

Il testo viene da lontano. Negli Stati Uniti del 1949, usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale e catturati dall’ottimismo di Truman teso al consolidamento del capitalismo, il libro di Streeter, abile narratore del lato buffo, persino ridicolo della vita, già realizzato con un libro di finte lettere dal fronte scritte da un soldato semi-analfabeta, diventa un enorme e inatteso caso letterario anche grazie alle illustrazioni del noto cartoonist Gluyas Williams, che fungono quasi da bozzetti di scena. La storia sembra interpretare, con la giusta dose di ironia e sul filo di fatti semplici e intimistici, sia un sentimento familiare comune, la gelosia di un padre verso una figlia che decide di sposarsi, sia il desiderio di rispondere positivamente alla politica trumaniana e contestualmente cancellare le brutture della guerra ancora vicina con la fastosità della cerimonia nuziale e del banchetto. In quegli anni c’era voglia di bellezza, forse bisogno di bellezza. La bellezza, però, è una panacea senza tempo e vale ora come allora.

L’anno seguente Il Padre della Sposa fa ingresso nel mondo del cinema. Regista è Vincent Minnelli, sceneggiatori Frances Goodrich e Albert Hackett e interpreti Spencer Tracy, Joan Bennet ed una bellissima, spumeggiante diciassettenne dagli occhi viola, Liz Taylor, fidanzata di scena con Don Taylor. Per Tracy arriva anche la nomination all’Oscar; lo stesso vale per gli sceneggiatori e per la produzione, che, comunque, conquista il Golden Globe. Nel 1951, sull’onda del successo cinematografico, Carolyn Francke scrive il testo teatrale e, quarantuno anni dopo, arriva un atteso remake con Steve Martin, Diane Keaton, Kimberly Williams-Paisley e George Newbern, regia di Charles Shyer, il quale partecipa con Nancy Meyers all’ammodernamento della sceneggiatura.

In questa commedia il ruolo del padre, lungi dagli arrovellamenti di Strindberg o di De Filippo, di Shakespeare o del nostro contemporaneo inglese Charlie Josephine, lungi dalle stigmate di dramma che segnano la gelosia del Rigoletto di Hugo e di Verdi, è semplice, lineare, perché non gioca tanto il concetto di paternità in senso biologico e psicologico del termine quanto quello umano, emotivo e deliziosamente fragile. È il cuore del padre ad essere protagonista, più che il padre stesso. Qui regna l’amabilità del sentimento paterno. E, in tal senso, la storia si conferma eterna. Eterna nella delicatezza della dinamica familiare, dei sentimenti conflittuali di un padre posto di fronte al fatto che l’amata figlia, per lui sempre bambina, sta per sposarsi; eterna nel pragmatismo maschile, che spesso, dinanzi al carosello infinito dei preparativi delle nozze, trasforma l’uomo di casa in una tarantola muraiola assolutamente immota, con occhio sgranato e segreti pensieri di fuga.

Gianluca Guidi è riuscito a creare una coralità comunicativa davvero speciale, mantenendo i ritmi del testo, soprattutto nel suo adattamento italiano, a metà tra il vaudeville e la pochade, con una ricchezza viva di battute, di scene nella scena, come in un gioco di specchi, di entrate, di uscite, di gesti; ma anche con un bagaglio ricchissimo di sentimenti, di dubbi, di sogni. È una commedia in costante movimento, fisico e relazionale.

Non si può fermare il tempo, certo; non si può impedire all’amore di generare altro amore; non si può vivere al di fuori delle convenzioni sociali. Eppure, come sembra suggerire il protagonista, qualche domanda affiora in un povero padre devastato dal carosello delle nozze della figlia. È davvero l’uomo giusto per sua figlia quel tizio dall’insulso diminutivo? Ed è davvero necessario spendere una fortuna quando basterebbe andare davanti ad un prete e rispondere «Sì» a tutte le sue domande? È questo il suo dilemma. Ed è un dilemma che richiede una particolare abilità non solo nell’interpretazione delle parole, ma nell’esternazione di ciò che viene taciuto; richiede mimica, espressività, profonda comprensione non solo del personaggio, ma dei sentimenti umani, tanto da riuscire a renderli vivi nel loro aspetto nobile e in quello inevitabilmente meno nobile che possiedono. In questo Gianfranco Jannuzzo è maestro. Quando, lo scorso anno, mi parlò del progetto di questo spettacolo, menzionò Spencer Tracy e Steve Martin come traguardi impossibili da raggiungere. Timore decisamente infondato a mio modesto avviso. Lui è capace di parole e di silenzi struggenti quanto quelli di Tracy, anche se i ritmi teatrali non consentono di indugiarvi, e di una prosodia farsesca altrettanto efficace rispetto a quella di Martin. Alterna momenti di riflessione a momenti di comicità, anche se la pièce è fondata essenzialmente su una comicità dai ritmi serrati. Deglutisce, passa lievemente il labbro superiore sull’inferiore, le palpebre scendono, la testa si muove impercettibilmente. Sono meri istanti in cui il tempo dell’umorismo si ferma per lasciare spazio a quello del padre, istanti che, tuttavia, durano un’eternità e che entrano in chiunque lo stia guardando, anche in quelli che non colgono ogni particolare del linguaggio corporeo ma che, comunque, ne percepiscono la potenza. Subito dopo lascia che le parole s’inseguano tra loro, si accavallino nell’idioma dell’emozione, sì, ma anche della razionalità, la razionalità di chi si sente solo in un mondo di folli e, poi, si accorge che folle, folle, folle è lui stesso, insieme agli altri, insieme alla moglie, insieme ai consuoceri, insieme alla figlia amata, persino insieme a quel tizio dall’insulso diminutivo che vuole sposarla e a quel bizzarro organizzatore di matrimoni. La sua è una comicità che nasce dal sentire più profondo. Un piccolo particolare: il protagonista della pièce colleziona francobolli e Gianfranco Jannuzzo, nella vita, ne è un profondo e attento conoscitore.

Bravissima anche Barbara De Rossi nel suo troneggiare sulla scena come donna-madre, ma anche come donna che è nuovamente moglie attraverso la figlia e che corona per la seconda volta il proprio sogno. Oscar Wilde, sempre provocatorio, diceva che la felicità dell’uomo sposato dipende da chi non ha sposato. Ebbene, in questa pièce non sappiamo se la felicità del protagonista abbia a che fare con chi non ha sposato, ma sicuramente sappiamo che dipende da chi ha sposato, perché sua moglie, che sembra distante anni luce da lui e dal suo immaginario, un immaginario nel quale, come in un film horror, ella attiva entusiasticamente un frullatore per anima e portafoglio, è, in realtà, il suo appoggio, la sua àncora, la sua verità, l’altra parte della verità, perché ce ne sono sempre almeno due e si completano a vicenda. La De Rossi è capace di rendere con grande padronanza scenica i diversi moti sentimentali del suo personaggio, passando dal sorriso al pianto e nuovamente al sorriso nell’arco di un istante. Del resto la vita, anche nei suoi momenti più comici, conserva sembra l’ombra di una struttura drammatica e si piange persino di gioia.

Martina Difonte e Lucandrea Martinelli, giovani ma non inesperti, abbracciano efficacemente la scena, sono capaci di una fantasiosa levità senza troppa enfasi, capace di evidenziare l’umorismo insito nelle loro battute.

Un Bravo anche a Roberto Iannone e Marcella Lattuca, i consuoceri. Ottimo assortimento di linguaggi, il loro, di andatura in una sincronia cronometrica, in una nitida precisione, vivacizzata da un’iridescente varietà di accenti e di follie, come lo champagne inesistente che costringono gli ospiti a fingere di bere e che ricorda un’esilarante gag di Stanlio e Ollio.

Sublime, poi, nel suo fantasioso ruolo, Gaetano Aronica, che, qualche anno fa, abbiamo visto, sempre accanto a Jannuzzo, protagonista di un magnifico Fifì nel Berretto a Sonagli, ma che tutti ricordiamo anche per i suoi ruoli cinematografici, tra i quali un perfetto Paolo Borsellino. Egli conferma, qui, le proprie doti attoriali e mimetiche. Entra fisicamente nei personaggi che interpreta, li aggiusta sul proprio corpo, sul proprio volto. Mi sia consentito un paragone fumettistico: è come Diabolik. La maschera lo trasforma e lui dà vita autonoma alla maschera. Boris, l’organizzatore di matrimoni, marcia costantemente sul filo dell’entusiasmo e dell’esoterismo, alternando momenti in cui tutto va bene a momenti in cui solo l’ipnosi può aggiustare le cose, ottenendo sempre nuovi sforzi, soprattutto economici, dal povero padre della sposa, ma infine rivelandosi estremamente generoso nell’aiutarlo. E fa tutto ciò dall’interno dei propri abiti orientaleggianti, della propria parlata particolare, della propria immaginosa gestualità. Funziona benissimo.

Anche le luci di Umile Vainieri parlano, sottolineando i diversi momenti, così come fanno le belle musiche del regista Gianluca Guidi, la cui sensibilità musicale, pari a quella per il teatro, arriva dai cromosomi, ma è stata elaborata da una crescita personale e professionale di indubbia qualità, che lo rende, oggi, uno dei più validi artisti della sua generazione.

Indovinata, infine, la scenografia di Carlo De Marino, che, senza chiudere il sipario, rende possibile l’avvicendarsi di due salotti, di due scene.

Lo scorcio del giardino, poi, è un bel filo d’oro che collega il presente al passato, una citazione, se vogliamo; la citazione di quel vivere benestante tipico di certa America familiare, che predilige la villa all’appartamento cittadino e che riporta tutti noi ai tempi di Tracy.

E il cerchio si chiude.

Martina Difonte e Gianfranco Jannuzzo

Il Padre della Sposa, passando dalla pagina scritta al cinema e dal cinema al teatro, continua ad emozionare, a far sorridere, a far riflettere, a renderci tutti protagonisti di un mondo di affetti e di sentimenti che appartengono al nostro microcosmo familiare da sempre, persino quando non si ha un padre, persino quando non si ha una figlia. Certe situazioni le conosciamo perché sono l’energia e la simpatia con cui Dio ha condito la vita.

Il padre della sposa di Caroline Francke – Regia di Gianluca Guidi – con Gianfranco Jannuzzo, Barbara De Rossi, Martina Difonte, Roberto Iannone, Marcella Lattuca, Lucandrea Martinelli e con la partecipazione di Gaetano Aronica – Scene e costumi: Carlo Di Marino – Musiche: Gianluca Guidi: Luci: Umile Valeri – Produzione Francesco e Virginia Bellomo – Teatro Sala Umberto dal 10 al 29 ottobre

Foto di copertina Gianfranco Jannuzzo e Barbara De Rossi

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