Mentre all’interno della Sala Sinopoli dell’Auditorium l’applauso s’innalza con una standing ovation al protagonista del documentario che Giorgio Verdelli ha dedicato al più grande pianista jazz che l’Italia abbia avuto, l’emozione di chi scrive vola tra i ricordi di un indimenticabile luglio del 1991. Una stagione balneare che s’aprì con una visita inaspettata: «Laeluis Lutatius cum Roxana».
All’epoca – mi si perdoni la prima persona – avevo 25 anni e potevo godere di lunghe vacanze al mare, che la sospensione dell’attività teatrale offriva a quelle compagnie che raramente frequentavano le piazze estive. La meta, ormai da qualche anno, era la solita: una invidiabile terrazza che dalla costa settentrionale della Corsica guarda a distanza le sagome dell’isola d’Elba e di Capraia. Con i primi caldi il piccolo borgo di pescatori tuttora resta poco frequentato, se non dai più affezionati villeggianti. In quel periodo, trentuno anni fa, una coppia di amici (dei miei genitori) prendeva lì una casetta in affitto per il mese di luglio; si chiamavano Mario e Mary. Andavo spesso a pesca di saraghi sul mio gozzo insieme con Mario. Una mattina, poco dopo l’alba, appena giunti in mare aperto, Mario mi informò di una novità: «Mi ha telefonato Lelio, avrebbe intenzione di raggiungermi qui con la moglie. Vengono in motoscafo per rimanere qualche giorno: tu sai meglio di me dove potrebbero alloggiare».
L’arrivo – Io ero solo a casa e la stanza dei miei genitori avrebbe potuto ospitare comodamente sia Lelio che Rossana. Qualche giorno dopo, di vedetta sul terrazzo, vidi avanzare verso noi, da nord-est, un’imbarcazione di colore scuro, seguita da un’altra bianca. Dissi a Mario, che era lì con me: «Credo siano loro». Binocolo alla mano, l’amico confermò. Andammo loro incontro giù al porticciolo e Lelio, un po’ contrariato dal lungo viaggio, mettendo piede a terra, disse: «Basta. Io, da qui, non mi muovo». Era un chiaro messaggio a Rossana che, invece, aveva in programma di circumnavigare la grande isola insieme alla coppia dell’altro motoscafo.
Oblomov – Ancora sul molo, Mario indicò a Lelio la terrazza, proprio di fronte, della casa che li avrebbe ospitati, e l’altro approvò con entusiasmo: «Fantastico! Proprio quel che ci vuole adesso. Una settimana di riposo totale. Il massimo dello sforzo sarà leggere il giornale». Poi si rivolse a me: «Arrivano i quotidiani italiani qui, vero?» «Certo, però dopo le dieci», risposi. E con un gesto della mano il maestro fece capire che anche l’orario era di suo gradimento.
In quel momento il mio occhio si soffermò sul nome della barca di Luttazzi: Oblomov, come il personaggio protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Gončarov, famoso per la sua oblomoverie o, in italiano, oblomovismo, parola inventata dall’autore russo per definire quegli animi caratterizzati da un’apatica e fatalistica remissività. In effetti, Lelio aveva battezzato l’imbarcazione seguendo il suo istinto di quel periodo, quando ancora non aveva smaltito del tutto il triste e ingiusto percorso giudiziario che calpestò la sua umana sensibilità e il suo animo artistico. La mattina dopo, come previsto, Rossana ripartì in barca con gli amici e Lelio rimase ospite graditissimo in casa mia, praticamente senza mai uscire: dal letto alla terrazza per la colazione; e, dopo cena, dalla terrazza, al letto. Era Mario, spesso anche in compagnia della moglie, che veniva a trovarlo sia in tarda mattinata che al tramonto, e io preparavo loro caffè e zuppiere cariche di spaghetti al pomodoro; non dimenticando mai di correre puntuale dal giornalaio a comprare il Corriere e la Gazzetta.
Lelio, in quel periodo, certamente soffriva di oblomovismo, ma il suo intelletto era vivo e la sua sagace verve critica, tanto ironica quanto spietata, da triestino purosangue, mi ricordava le irruenze che già avevo imparato a conoscere sia in Strehler che da alcuni amici di Trieste con cui avevo lavorato in quegli anni al Teatro Rossetti (Sergio D’Osmo, per fare un nome noto agli addetti ai lavori). Lelio Luttazzi era esattamente come loro: irruento e benevolo, appassionato e feroce nei giudizi e soprattutto in alcune plateali invettive.
Una mattina, poco dopo il caffè, mentre tranquillo e rilassato era seduto sulla sdraio a leggere un articolo sulle colonne del Corriere, esplose di furore e io mi incantai a sentirlo inveire e ruggire nel suo splendido dialetto, stracarico di «mona», nei confronti di qualcuno che sulla terrazza difficilmente avrebbe potuto infliggergli qualche torto. Invece, uscendo, trovai le pagine del giornale a terra e lui in piedi a scrollarsi qualcosa che gli aveva macchiato la maglietta. Un gabbiano assai impertinente dall’alto si era permesso di distoglierlo vigliaccamente dal suo oblomovismo mattutino, insozzando sia il giornale che la candida t-shirt. E lui inviperito: «Ma va in mona de tu mare, mona de kokàl! Bus de cul, cossa te me caghi sul giornàl!», c’era della musica viva nell’eruzione delle sue parole e il ritmo veniva fuori con una passione entusiasmante. Tutta la tensione sfogata nell’impeto di rabbia, un attimo dopo, annegò in un batter d’occhio in una grossa risata, che si replicò quando poi anche Mario fu messo al corrente dell’incidente piovuto dal cielo.
Erroll Garner – Mario e Lelio erano molto amici, ma una consuetudine li separava: «una sana abitudine», sosteneva il romano de Roma; «un’abitudine drammatica», ribatteva il triestino. Mario, infatti, nonostante la presenza dell’amico, continuava a svegliarsi presto, per cui la sera, subito dopo cena, si ritirava a casa sua lasciandoci da soli. Lelio non concepiva la sveglia prima delle dieci e, come me, si attardava volentieri fino a notte inoltrata. Cominciammo a chiacchierare e a conoscerci meglio: in fondo, prima di quella settimana di convivenza, l’avevo incontrato sporadicamente due o tre volte a Roma, sempre nella villa di Mario a Casale Lumbroso, e sempre con i miei genitori. Mi chiese del teatro, e per entrare in confidenza e rompere la barriera generazionale, mi citò una frase con la quale sapeva di sfondare la porta delle mie confidenze: «Gli amici dei miei amici sono miei amici». Infatti parlammo di Peppino Patroni Griffi, di Franca Valeri, di Caprioli, di Salce, di Panelli e Falqui e tanti altri. Mai di musica.
Su un ripiano, nella sala, c’era un apparecchio stereofonico con tante cassette a vista (oggi non esistono più le musicassette!) e notai che Lelio, mai s’era accostato a quella mensola. Anzi la teneva a debita distanza. Eppure era impossibile che non l’avesse notata. La cosa mi colpì, e una sera lo provocai sfidandolo sul suo stesso terreno: «Che musica vuoi ascoltare?»
«Detesto la musica di oggi».
«Ma io sono un amico dei tuoi amici: secondo te amo la musica di oggi?»
«Se vuoi mantenere l’aurea della tua gentilezza con me, non mettere nulla, ti prego. Poi tanto lo so che mi costringerai ad ascoltare cose che mi faranno rabbrividire».
«Dai, non dire così! Un po’ di Erroll Garner: sono sicuro che…»
Sgranò gli occhi. Si sollevò gli occhiali sulla fronte e sentenziò: «Mi vuoi prendere in giro! Tu ascolti Erroll Garner?»
«Certamente».
Si convinse in un attimo: «Dai, accendi: infila ‘sta roba lì dentro e fammi sentire».
Il pianista di Pittsburgh iniziò ad allietarci con una delle sue tipiche introduzioni, dove le note del brano che s’appresta a suonare sembrano cascare a casaccio sulla tastiera, ma all’improvviso si raggruppano in poche battute per formare la frase che dà il via al basso e alla batteria per attaccare la melodia. Lelio in quell’istante cominciò istintivamente a battere il tempo con l’oscillazione della gamba, e un attimo dopo disse: «È il più moderno dei pianisti antichi», laddove la parola antico diventa sinonimo di classico, riferito al jazz naturalmente. Avevano due anni di differenza: Garner era del 1921, Lelio del ’23, eppure il triestino lo considerava il suo mentore della tastiera: «È un tuo collega», mormorai scherzando. Il paragone rese orgogliosa anche la sua più profonda strafottenza che s’addolcì quando gli versai qualche goccia di whisky nel bicchiere, pur avendo ricevuto l’ordine di non farlo.
«Ma che dici, al confronto io suonicchio. Garner è un mito per chi suona questa musica: noi siamo amanti del jazz, mentre lui è nato jazz. Dopo averlo visto al concerto di Parigi, ho capito davvero cosa fosse un pianoforte per un pianista jazz e quali capacità avesse quello strumento che io al confronto strimpellavo da anni, sbagliando tutto». Mentiva sapendo di mentire, naturalmente!
Riprese poi ad ascoltare con attenzione, e improvvisamente esplose tra il rassegnato e l’infastidito, quasi soffocando un urlo: «È più bravo di me, c’è poco da fare». E tirò fuori un’esclamazione irripetibile: ma quanta ammirazione nelle sue parole. «È più bravo di me: senti, senti – sottolineando un passaggio musicale – continua a suonare pure quando non suona. È magia. È magia». E mi mostrò ancora la gamba che saltellava a ritmo di swing: «Ti svelo un segreto: quando muovo la gamba è il segnale che la musica mi piace. Se la gamba resta ferma mi sto rompendo i coglioni». Poi mi fece una domanda a bruciapelo: «Sapresti spiegarmi cos’è lo swing?»
«Facile – risposi – quando il maestro Luttazzi non può fare a meno di muovere la gamba!»
«Certo, ma è pure quando la musica ti prende qua – portandosi le dita sul ventre – e cominci ad ascoltarla da qui dentro. Senti come la mano destra arrivi sempre in leggero e costante ritardo rispetto alla sinistra – disse mimando – Ascolta questo giro eseguito con un dito solo, eppure sembra che mantenga intatto l’accompagnamento con la sinistra che invece è ferma. Non c’è. Soltanto chi ha il pianoforte nel sangue può permettersi una simile finezza».
Fu così che quella notte Lelio Luttazzi improvvisò su un’immaginaria tastiera – soltanto per me – Mack the knife eseguita da Erroll Garner che con il piano era capace «di intrattenere qualsiasi tipo di pubblico, ma anche di colloquiare con il ventre dell’ascoltatore».
Per me fu una nuova scoperta. Per Lelio, una serata in cui lo vidi ridere negli occhi per la prima volta. Mi chiese un altro goccetto.
«Rossana mi ha detto di non esagerare».
«Dai, dai…»
Mina – Versai un altro mezzo dito di whisky nel bicchiere che gli stavo porgendo, quando stranamente allungò la mano verso altre cassette. Scorse gli involucri di quattro nastri su cui era scritto in stampatello e a mano (da me) Mina 1, Mina 2, Mina 3 e Mina 4. Afferrandoli li esaminò attentamente. Bevve prima un sorsetto e poi cambiò totalmente registro: «Di lei posso dirti tutto, ma proprio tutto». E il suo sguardo si riempì di profonda tenerezza, mista a gioiosa malinconia.
E quando più tardi la sua amica Mina, diretta dal suo amico Gianni Ferrio, prese a cantare Non gioco più, me ne vado, davanti a noi vedemmo sorgere il sole; e come due ragazzini corremmo alla ringhiera del terrazzo per goderci il miracolo a pelo d’acqua e per salutare il pescatore che usciva dal porto proprio come quella foglia che col vento se ne va. Il canto di Mina giungeva dall’apparecchio in casa e Lelio le faceva il controcanto in terrazza con la voce di Louis Armstrong. Io lo guardavo estasiato e divertito, e lui serio: «Sai che questo era l’unico modo per poterle stare vocalmente vicino; lo sai? Solo giocando si può cantare insieme con Mina. Altrimenti non hai scampo».
Quando Lelio ripartì, pochi giorni dopo, avvertii un vuoto in casa che non avevo mai provato lì, tra quelle mura amiche, per me sempre felici. Lasciò scritto un messaggio affettuoso a me e anche ai miei genitori che non avevano assistito a quel che avevo vissuto in meno di una settimana: «Amici mei, Maria Roxaria, Iohannes, Phaustusque, milia gratias ago vobis excellentibus hospitibus. Domus vestra maxime aurea est. Ave ave ave. Laelius Lutatius cum Roxana».