Quando si riportano in scena vecchi testi teatrali è interessante vedere il cambiamento culturale e sociale intercorso tra il momento in cui è stata scritta l’opera e quando la vediamo. Alcuni testi invecchiano bene, altri male, e in altri questa trasformazione quasi non esiste, tanto da far pensare “ah – signora mia – stiamo messi sempre uguali”. In questo caso, per fortuna possiamo dire, qualcosa è cambiato, anche se non abbastanza. La violenza dell’uomo sulla donna, del marito sulla moglie è un tema centrale delle nostre vite e, seppur a piccoli passi, sembra che una nuova coscienza collettiva stia spazzando via quella vecchia, anche se non ancora in maniera decisiva. Al Teatro Trastevere è andato in scena dal 12 al 15 maggio lo spettacolo “Pericolosamente”, scritto da Eduardo De Filippo nel 1938 con la regia di Alessandro Sena.
La storia vede Michele (Cristiano Leopardi), un sacerdote partenopeo che ritorna a Napoli dopo quindici anni, che in cerca di una stanza ritrova il vecchio amico Arturo (Francesco Sgro), ora sposato. Gli offre una camera e quando si reca a casa per vederla incontra Dorotea (Mariné Galstyan), la moglie. È una annoiata e sgarbata donna altolocata che racconta al giovane sacerdote un fatto molto strano, il marito, da due anni a questa parte, ogni tanto le spara. E ci avevano pure avvisato: “Attenzione, durante lo spettacolo ci saranno continui colpi di pistola”, in effetti facevano pure un bel frastuono in un teatro di certo non immenso. Comunque, ogni volta che lei è scontenta, che fa “i capricci”, che si rivolta contro il marito, che non esegue i suoi ordini, Arturo, senza troppe remore, le spara.
Il senso era un po’ questo: mettere in qualsiasi modo possibile la donna “al proprio posto”. Qui avviene tra gag, litigi, incomprensioni e scherzi, ma questa era la realtà nei decenni scorsi, quando De Filippo scrisse il testo. Oggi farebbe storcere il naso, in un momento in cui, nonostante l’evoluzione culturale della società, storie del genere sono all’ordine del giorno. Salito sul palco, il regista Sena ha voluto evidenziare proprio questo aspetto: riportare in vita uno spettacolo del genere vuol dire denunciare queste azioni, scagliarsi contro l’arroganza e la pericolosità di quegli uomini che credono di avere accanto una proprietà e non una donna libera.
La scena durante la serata si ripete più volte. Il sacerdote e i due benestanti napoletani diventano un romano che torna in un paesino del sud Italia dopo quindici anni, il suo amico campagnolo che gli offre di farlo dormire in casa qualche giorno e sua moglie, una donna spagnola. Qui l’espressione mimica diventa fondamentale. Gli attori parlano lo spagnolo o un dialetto stretto, e la comunicazione avviene attraverso espressioni e gesti. Rivediamo ancora una volta i tre attori. Ora però la coppia è formata dai due uomini che ricevono in visita Michela, rimasta per quindici anni in America. Il copione è lo stesso per tutte e tre le volte. Cambiano le lingue, il contesto e anche i generi, ma l’uomo è ogni volta colpevole della sua indole prepotente, cade sotto il peso culturale dell’uomo forte.
I tre attori incarnano alla perfezione i personaggi del testo di De Filippo. Espressivi, mimici, riescono a riproporre la stessa scena – come detto, appunto, in contesti diversi – senza far annoiare (anche se conoscendo ormai ogni situazione alla fine risulta un po’ ripetitivo). Un messaggio rimane, nonostante la costante evoluzione culturale, per quanto riguarda il tema della violenza sulle donne c’è ancora tanto da fare.