“SOLI, BASTARDI E SENTIMENTALI”, l’ultimo libro di Paolo Zagari

Esasperato, Mario è vittima d’un amore rancoroso, si crogiola il cinico Giuseppe nell’esser solo, mentre Marco annaspa, immerso in un ruolo paterno dal quale appare escluso.

Se Giacomo discorre con Mina all’interno di un bistrot, Manfredi s’invaghisce del suo capo, Lino lenisce l’angoscia rifuggendola in un cinema semivuoto.

Roma, le voci di sedici personaggi come chiazze soggettive d’una realtà ordinaria, i loro sguardi tra loro si riflettono, costituendosi progressivamente come midollo di un romanzo polifonico dove i timbri, i pensieri ora s’intrecciano, ora entrano in collisione.

È “Soli, bastardi e sentimentali” l’ultimo libro del regista e scrittore Paolo Zagari, edito dalla MDS, la casa editrice che nel rilancio dell’intera opera dell’autore identifica il tentativo di dar vita a una forma di resilienza editoriale, indispensabile in questo difficile momento storico.

Mogli e mariti, genitori e figli: laddove il terreno di narrazione sembrerebbe ridursi nell’innocuità di una routine quotidiana, è proprio del quotidiano che l’autore intende narrarci la contraddizione, il soffocamento, l’esasperazione, centellinandone le sfumature attraverso l’alternanza dei monologhi.

Strumento eletto trasversalmente nell’intero romanzo, l’uso della prima persona incrina la scrittura monologante declinandola sul piano del soliloquio e dell’intima riflessione: presentati come brevi flussi di coscienza i capitoli mettono in luce le suggestioni, gli autoconvincimenti e i timori, rappresentando nel complesso l’idea di ciò che su un piano generale  l’uomo/ la donna dice a sè stesso/a senza pronunciarlo.

Ed ecco che i cinici si scoprono innamorati, i politicamente corretti rischiano un omicidio colposo, i realizzati sono costretti a reinventarsi di fronte a un inatteso licenziamento: una realtà stratificata soffocata sotto il filtro pungente d’una società che la costringe a banalizzarsi perdendo di vista il senso che la permea.

Una carrellata di inetti, un resoconto di fallimenti o forse una successione irrefrenabile di eventi epifanici che, nel loro doloroso manifestarsi, svelano forse il volto di una mistificazione utilizzata talvolta nello strato sociale come unica, erronea ancora di sopravvivenza.

“Sono felice e sono solo. Ho paura e sono felice. Sono solo e ho paura” – nella scoperta della solitudine Zagari trova forse un fil rouge che lega tutte le storie, offrendo uno sguardo ironico alla paura di vivere, come a quella di non vivere.

Sebbene l’eccessiva molteplicità dei personaggi trattati impedisca talvolta il loro imprimersi nell’immaginario del lettore, sebbene ciò ponga il rischio che quest’ultimo ne perda le tracce o non si soffermi con egual intensità su ognuno di essi, nell’ottica di una narrazione continuativa è proprio sulla discontinuità che l’autore sembra scommettere. Su un’intermittenza che sembra porre il romanzo in una prospettiva di tempo compresso dove mentre accade qualcosa, qualcos’altro, poi qualcos’altro ancora accade, contemporaneamente.

Teatro Roma
Grazia Menna

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