Totò Onnis dà vita al doppio ruolo della madre cuciniera e del figlio «coronato»
È domenica mattina e Michele ozia a letto, quando la madre dalla cucina lo chiama con insistenza e costanza, la stessa che adopera per rimescolare la salsa del ragù che sta peppiando in pentola. Un gesto tanto monotono quanto ieratico che addensa la calura agostana di succulenti odori: la cucchiarella che accarezza il sugo con la dolcezza di un rammarico rappresenta il tempo e la devozione che una mamma del nostro Sud dedica alla crescita del figlio, alla sua preparazione di uomo. Eppure la mamma di Michele, in cuor suo, sente che qualcosa non sta andando per il verso giusto, che quel figlio dovrebbe correre alla messa, che si dovrebbe fidanzare (che è diverso che innamorarsi) per allontanare le cattive compagnie sempre in agguato, ma poi anche lei s’attarda accanto al ragù e ai suoi pensieri di madre, di moglie e di donna che fu, mentre Michele attende la fine del dolce tempo del ragù per poi perdersi in un mondo che lo traghetterà nelle amarezze della malavita di Bossolo.
Bossolo è il proiettile dello sparo che segna l’inizio della parte drammatica del monologo, scritto e diretto da Antonio Palumbo, ma potrebbe anche essere – anzi lo è – il vezzeggiativo di boss, proprio quello che userebbe la Mamma per evitare di riflettere seriamente sulla vita sbagliata intrapresa dal suo «bravo ragazzo» e sui pericoli che seguiranno. Bossolo, sul manifesto dello spettacolo, è anche il profilo di un figlio santificato da una «sacra corona» illuminata, visto che siamo al confine tra il Salento e la Terra di Bari, nel cuore più caldo di un’antica dignità malavitosa.
Il testo di Palumbo è composto da due brevi monologhi: quello di una mamma, che si svolge ipoteticamente negli anni Sessanta (sono molti i riferimenti epocali: dalla canzone di Bruno Martino a James Dean) e quello di Michele, il boss che, anni dopo, si racconta con fredda autocritica sapendo che ormai è giunto al capolinea della sua corsa criminale, e sente che è arrivato il momento di abbandonare lo scettro: un gesto crudele che equivale a dover affrontare la resa. Tirare le somme di un’esistenza dedicata alla criminalità è per lui un atto di saggezza, certamente spietato ma inevitabile. Il dramma, nelle parole aspre di Michele, si apre sulla magra scelta che offre l’epilogo: ergastolo o morte? Il tema sollevato – l’interrogativo cruciale – non è certamente nuovo per chi conosce i criteri delle ascese e delle rovine dei boss mafiosi e Palumbo lo ripropone come momento di riflessione che il protagonista ha il coraggio di confessare soltanto all’ultima vittima, ormai già cadavere.
Nelle parole che Palumbo fa ripetere a Michele e, prima ancora a sua madre, c’è tanta anima del nostro pigro Sud, cotto dal sole che ne rallenta il tempo, addormentato negli eterni meriggi della grande stagione: quell’estate annunciata dal canto di Bruno Martino che apre lo spettacolo. Un’estate che Michele ora odia, obbligato com’è a vivere nascosto alla luce di una lampadina, con la pistola in tasca per difendersi dall’agguato improvviso, dalla ritorsione, dalla vendetta. La sacralità del ragù ha ceduto il posto al puzzo del denaro, al sapore marcio del potere: i doveri della domenica dedicata alla messa e ai sorrisi della festività sono soltanto un antico ricordo.
Interprete di prestigio dei due personaggi, diversissimi tra loro, è Totò Onnis, attore già avvezzo nei ruoli en travestì (nel 2016 per il cinema interpretò con successo il personaggio di un pittoresco omosessuale in «Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis», regia dello stesso Palumbo insieme con Mariangela Barbarente). Onnis, con maestria ed esperienza, regala alla figura materna, di chiare origini baresi, un atteggiamento poetico e distratto (tant’è fervido l’impegno rivolto al ragù) e al contempo d’intrinseca protezione nei riguardi del figlio, il cui avvenire, per lei, non può che essere roseo. Ma la donna non sa che quando «tornerà un altro inverno cadranno mille petali di rose». E la scena di Michele divenuto boss si apre in pieno inverno e la voce di Onnis, fino a poco prima scintillante e divertente, colorita e beffarda, all’improvviso s’incupisce, ne trasforma lo sguardo che diventa torvo, e la maschera, prima gioiosa, si macchia di un’angoscia impietosa, senza speranza.
Nel complesso lo spettacolo gode di un buon momento in cui si ride e si sorride piacevolmente, con leggerezza e con un pizzico di malinconia, per poi affondare in una realtà più cruda e cupa, con un coup de theatre che al termine svela la concretezza del dramma. La regia giustamente è sempre concentrata sulla recitazione dell’attore, sulla parola esplicativa, sulla smorfia che indica uno stato d’animo, a discapito di una scenografia che invece si disperde nella vaghezza del palcoscenico, luogo dove, a volte, il buio del vuoto è più elegante di tanti abbellimenti che la trama non contiene. Soltanto il finale risente di una confusione che non chiarisce adeguatamente la chiusura della vicenda che Lo Russo Angelo Michele affronta con il disperato sorriso di chi ha imparato a piangere.
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Bossolo scritto e diretto da Antonio Palumbo; con Totò Onnis (con la partecipazione mortuaria di Pasquale Fantasia. Scene e costumi di Angela Varvara; disegno luci, Nicola Segreto. Teatro Kennedy (Fasano, Br), il 30 gennaio
Foto di copertina: Totò Onnis in «Bossolo» di Antonio Palumbo Foto © Fonte Silvia Meo